Scommetto che se dico INPS voi pensate alla pensione…lontana, lontana nel tempo, ma pur sempre alla cara vecchia pensione. In realtà l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale si occupa di un sacco di altre cose: eroga l’indennità di maternità e di malattia dei lavoratori, la Naspi (ovvero la Nuova assicurazione sociale per l’impiego), in alcuni casi paga la maternità alle lavoratrici che hanno perso il posto di lavoro, versa i vari bonus bebè, nido, baby sitting, gestisce gli ex voucher che ora hanno preso il nome di “libretti famiglia” ecc…

L’INPS

Questo ente funziona come una vasca, i contributi pagati dai lavoratori e dai datori fungono da “rubinetto” mentre le prestazioni pagate sono “lo scarico”. A regime la vasca dovrebbe essere in equilibrio, tanta acqua entra tanta acqua esce, in realtà non è proprio così. Le variabili che governano l’equilibrio sono – in entrata: la percentuale di contribuzione e gli imponibili contributivi (di fatto il reddito lordo), che si traducono in numero di lavoratori, anni lavorati in media, inquadramento contributivo di aziende e lavoratori e infine i trasferimenti dalla fiscalità generale; in uscita: dall’importo delle pensioni e prestazioni pagate e quindi dall’aspettativa media di vita, dalle politiche sociali, dal sistema di erogazione delle pensioni ed eventuali rivalutazioni.
Se all’inizio il sistema sembrava funzionare senza problemi, in realtà nel tempo l’INPS ha iniziato ad accumulare debiti sempre più pesanti: il sistema pensionistico retributivo, basato su una pensione proporzionale alla media degli ultimi stipendi, a dispetto di una contribuzione basata sugli stipendi nell’arco della vita lavorativa e quindi all’inizio tendenzialmente più bassi, e le baby pensioni, pensioni erogate ad ex dipendenti delle pubbliche amministrazioni che avevano requisiti contributivi bassi, hanno portato diversi governi che si sono susseguiti nella metà degli anni ‘90 ad una serie di riforme, il cui scopo era quello di arginare il “dissanguamento” dell’INPS.

Le riforme del sistema pensionistico italiano

La più importante fra tutte è la Riforma Dini (l. 335/95) che ha introdotto il sistema contributivo, per chi ha meno di 18 anni di contributi nel 1995 la pensione non verrà più erogata come percentuale dell’ultima retribuzione ma come rendita da un montante accumulato negli anni grazie al versamento di contributi e rivalutato in funzione alla media dei tassi di crescita del PIL del quinquennio precedente.
Questo dovrebbe garantire una maggior corrispondenza tra quanto versato e quanto percepito, ma il sistema non è ancora in equilibrio,
I contributi versati non sono ancora sufficienti a coprire tutte le prestazioni pagate, inoltre stiamo assistendo ad un’inversione della piramide demografica, la proporzione tra i lavoratori che versano i contributi e il numero dei pensionati sta calando, è chiaro che in futuro il rapporto tra la pensione e gli ultimi stipendi percepiti continuerà a scendere: si pronostica che si arriverà ad una percentuale del 50% per chi entra nel mondo del lavoro oggi, senza contare che l’età pensionabile continuerà ad aumentare.
Per integrare la pensione il legislatore ha pensato di introdurre nel 1993 la previdenza complementare e di normarla a più riprese fino alla riforma del 2005.

I fondi pensione

Se un lavoratore teme che la sua pensione non sia abbastanza per far fronte alle sue esigenze future, può scegliere di aderire ad un fondo pensione. Fino al 2005 poteva farlo versando un contributo periodico al quale poteva sommarsi quello del datore di lavoro, con il d. lgs. 252/2005 si è aggiunta la possibilità di versare anche il proprio TFR (questa scelta è libera e volontaria, ma irreversibile nel tempo). Il TFR è 1/13,5 della propria retribuzione di fatto e scegliendo di versarlo in un fondo pensione, esso non verrà più rivalutato secondo le regole civilistiche, ma investito in un mega calderone insieme ad altre posizioni di previdenza complementare.
I contributi versati volontariamente ai fondi pensione (con esclusione delle quote TFR) sono deducibili fino a 5.164,57€ l’anno dai propri redditi imponibili.
I fondi possono essere di quattro tipi:

– chiusi, sono fondi di settore che nascono dalla contrattazione tra i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro.

– aperti, sono fondi istituiti da banche, assicurazioni, SGR (società di gestione del risparmio), SIM (società di intermediazione immobiliare)

– fondi pensione preesistenti al 15 novembre 1992 (ovvero nati prima del d.lgs. 124/1993) che possono gestire autonomamente le proprie risorse, sono fondi collettivi che nascono dalla contrattazione aziendale ed interaziendale.

– i PIP (Piani Individuali di Previdenza) sono assicurazioni sulla vita a scopo previdenziale, devono rispettare le direttive della COVIP (l’ente che ha poteri di vigilanza sui fondi pensione).

 

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