Leggo l’articolo di Forbes sull’iperinflazione del Venezuela che mi è stato segnalato qualche giorno fa da un lettore Galileiano di #moneyfornothing e provo a fare qualche riflessione sul problema dei prezzi in alcuni paesi emergenti o del Terzo Mondo, mentre vi invito a leggere quello che, a mio parere, è un pezzo chiaro ed esaustivo sul tema in oggetto (link qui).

Cos’è l’iperinflazione?

Secondo lo Ias 29 (gli Ias sono i principi contabili internazionali) si parla di iperinflazione quando uno Stato smette di usare la propria moneta in cambio di una valuta estera stabile o più specificamente quando il tasso di inflazione cumulativo in tre anni ha raggiunto il 100% (ovvero i prezzi sono raddoppiati), il che corrisponde ad un tasso di inflazione annuale di circa il 26%. In Venezuela quest’anno si registrerà con ogni probabilità un tasso di inflazione pari a circa un 1.000.000%, avete letto bene, al 31.12 i prezzi saranno diventati 10.000 volte quelli di inizio anno. Vuol dire uscire di casa e non sapere quanto si dovrà spendere per fare la spesa, anzi, non sapere se si potrà fare la spesa con quello che si ha nel portafoglio. Questa situazione è antitetica a quella vissuta negli ultimi anni dalla zona Euro, dove la deflazione (diminuzione del livello generale dei prezzi) ha accompagnato la recente recessione. Diverso è invece il caso della stagflazione: situazione in cui l’aumento dei prezzi accompagna una stagnazione economica, causato perlopiù da un rallentamento nell’espansione produttiva e non dal crollo dei consumi; negli anni ’70-’80 del secolo scorso questo fenomeno mise in crisi il modello di Phillips, che postulava una relazione inversa tra inflazione e tasso di disoccupazione, il trade off che distingue storicamente BCE e FED nelle scelte di politica economica.

Piccola premessa sul mondo dei cambi

In regime di libero scambio, il cambio bid o “denaro” dipende dalla domanda della valuta quotata e dall’offerta della valuta base, mentre il cambio ask o “lettera” dipende viceversa dall’offerta della moneta quotata e dalla domanda della valuta base. Faccio un esempio per capire: nel cambio euro/dollaro la valuta base è l’euro (e vale sempre 1) mentre la valuta quotata è il dollaro (il cui valore può fluttuare, anzi fluttua ogni giorno). Il cambio bid si riferisce quindi all’acquisto di dollari con il pagamento in euro, mentre il cambio ask si riferisce alla situazione opposta. I termini “lettera” o “denaro” trovano le loro radici nella Bruges del ‘500 dove gli acquirenti dei titoli offrivano denaro, i venditori offrivano una lettera, ovvero un documento cartaceo.
Nel mondo ci sono otto tipi diversi di cambio, che variano dal regime fisso (classico esempio l’Eurozona) al flessibile, ovvero che può oscillare in un determinato range, al fluttuante; nel regime flessibile, gli Stati a cui appartengono le monete sono tenuti ad applicare dei correttivi alle proprie basi monetarie qualora il cambio uscisse dai parametri prestabiliti. Le variabili macroeconomiche che aumentano generalmente la domanda di una moneta e quindi influenzano i tassi di cambio sono: la crescita del reddito o dell’inflazione e l’abbassamento del tasso di interesse di riferimento (es. l’Euribor per l’Europa). In realtà quando parliamo di tassi di cambio in modo generico, facciamo riferimento ai tassi nominali, che non tengono conto del rapporto dei tassi di inflazione nei due paesi a cui appartengono le valute, mentre per fare un’analisi corretta del potere d’acquisto bisognerebbe riferirsi a tassi di cambio reali, che sono opportunamente deflazionati.
Se viene rispettata la condizione di Marshall – Lerner (dal nome dei due economisti che la scoprirono in modo indipendente), ossia la somma dell’elasticità delle esportazioni e delle importazioni al prezzo è maggiore di 1, una diminuzione del tasso di cambio reale porta ad un miglioramento del saldo della bilancia commerciale (esportazioni – importazioni). Ricordo che l’elasticità è il rapporto tra variazione percentuale della variabile dipendente e quella indipendente (esportazioni/importazioni e prezzo). In soldoni l’aumento delle esportazioni deve superare il calo delle importazioni dovuto al deprezzamento della valuta.

Cosa genera l’iperinflazione?

Con buona pace di quelli che vorrebbero stampare moneta per pagare più velocemente i debiti (e finire come il Venezuela) sappiamo che esiste una relazione tra il PIL, il livello generale dei prezzi e la quantità di moneta in circolo. Fisher ha sintetizzato queste informazioni nell’identità MV=PY (per ulteriori dettagli vi rimando al mio vecchio post), che è valida nel medio e nel lungo termine: se aumenta la quantità di moneta circolante M o la velocità con cui circola V e non aumenta contestualmente il reddito Y, allora necessariamente devono aumentare i prezzi (P). L’aumento dell’inflazione porta ad un peggioramento del cambio con le valute estere ceteris paribus, che a sua volta genera sfiducia da parte dei mercati innescando una spirale di deprezzamento della moneta se il governo non interviene con la politica monetaria. E proprio questo è quello che è successo al paese sudamericano.
Le politiche protezionistiche e al contempo espansive e il regime dei cambi fissi hanno generato un disastro di tale portata: il Venezuela sta scontando una politica scellerata nella gestione del petrolio, dovuta a prezzi troppo elevati per i consumi post Crisi 2008 e troppa fiducia nella carta stampata, come strumento di contenimento del debito finanziario e di stimolo dei consumi: se le persone credono che il governo continuerà ad andare in deficit finanziandosi con della nuova carta moneta, spenderanno sempre più alimentando una spirale inflazionistica prezzi – salari. Come scritto nell’articolo di Forbes, la medicina per questo male è amara: ridurre il deficit, limitare la stampa della moneta allo stretto indispensabile, lasciare che i cambi siano liberi di fluttuare – fino a poco tempo fa il Bolivar fuerte, che sostituiva il Bolivar venezuelano (al tasso di cambio 1 Bolivar fuerte = 1000 bolivar), era fissato al cambio 1 Dollaro = 10 Bolivar fuerte, ma al mercato nero i cambi sono sempre stati decisamente diversi e l’inflazione ha completamente esautorato la moneta del suo potere, obbligando il governo di Maduro a portare delle recenti modifiche all’assetto monetario: è stata creata una nuova moneta, il Bolivar sovrano, che vale 10.000 Bolivar fuerte (e quindi 10 mln di Bolivar venezuelani), ed è stata agganciata alla criptovaluta Petro, il cui valore è quello di un barile di petrolio venezuelano, ovvero circa 60 dollari americani, con un esperimento di finanza ipercreativa mentre i bambini patiscono la fame a causa di una gravissima carestia. Purtroppo se gli investitori credevano poco nella moneta reale, difficilmente potranno credere ad una criptovaluta emersa dal nulla come tentativo disperato di abbattere l’inflazione, lo Stato dovrà sforzarsi un po’ di più per appianare i conti. Stiamo a vedere cosa accadrà mentre il Brasile ha iniziato a chiudere le frontiere settentrionali per fermare l’esodo di venezuelani in fuga dal Paese in preda ad una grave crisi politica ed economica.

Iperinflazione

Banconota dello Zimbabwe